Io, lei, lo scrittore

Tre Racconti

«Non smetterò mai di ringraziare mio padre Ron per la decisione di trasferirsi in una fattoria quand’ero una bambina…»

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«Non smetterò mai di ringraziare mio padre Ron per la decisione di trasferirsi in una fattoria quand’ero una bambina…» Come no, facciamogli pure la révérence a papà Ron… se ne fosse andato da solo, invece di trascinarmi a spalare letame insieme a quella squilibrata di Gabriella che non si faceva chiamare mamma in pubblico e solo per questo andava fatta seguire d’ufficio da uno psichiatra. Lei, i suoi quattro peli

rossi in testa e i body all’americana che non sbottonava neanche per pisciare.

Franca voleva dare l’immagine della diva legata alle sue umili origini, anche se lei di umile non aveva proprio niente. Mentiva allo specchio con la naturalezza che solo l’abitudine dispensa agli attori: sguardo compiaciuto, sorriso leggero, la pelle tirata sugli zigomi. Quel giovedì indossava la gonna plissettata alla caviglia con la cinta cognac per tenerla alta in vita. Dopo trent’anni pesava gli stessi cinquantatré chili degli anni di Parigi. A suo agio nella poltrona capitonné del salone, avrebbe fissato a lungo il lampadario con le gocce alla parola “padre” e sbattuto con decisione le palpebre a “fattoria” per far scivolare qualche lacrima. Poi, accarezzando

il velluto cipria tra le pieghe del bracciolo, avrebbe estratto il fazzoletto ricamato dalla manica della camicia per tamponarsi la guancia.

Che attrice si era fatta Franca, con quella sua abilità di passare dal tragico al comico senza fartelo notare. Un talento che aveva allenato quando sorrideva alla quarta ripetizione della variazione Fata Confetto II atto mentre i piedi tumefatti sfregavano contro il gesso delle scarpette. Aveva tredici anni e soffocava “brutta stronza” tra i denti fissando la specchiera che si reggeva con otto chiodi ai mattoni della stalla. Gabriella aveva trasformato quell’ex ricovero di Frisone da latte in una parodia della sala prove dell’Opéra. Sopra la mangiatoia sporgeva “la sbarra”, due pali tondi in legno riciclati dalla staccionata, uniti con la lamiera della grondaia. Le sibilava ancora in testa quello squittio irritante: “Tutti in pista, si danza!”, dove tutti erano lei e la matrigna, mentre la concessione della domenica pomeriggio erano il body di velluto verde antracite con lo scollo dietro e le calze nere se aveva le mestruazioni. Bella infanzia di merda, sbatacchiata tra New York e Parigi per le audizioni, secca come un sedano da pinzimonio, per quattro lire che riuscivo a malapena a pagare l’affitto e una frustrazione sessuale che mi sarei fatta anche l’ultimo ballerino di fila ancora indeciso sull’essere frocio.

Ma questo Franca non lo poteva dire alla ghostwriter che la aspettava in salotto. L’idea di accettare la proposta di scrivere un libro di memorie gliel’aveva messa in testa La Teresa, agente prima che amica, l’unica capace di convincere Franca a indossare la gonna quando aveva già scelto i pantaloni. Ora l’aspettavano entrambe di là, accoccolate sulle poltrone cipria: l’agente un po’ ubriaca, con la solita scusa del goccetto per motivi di lavoro, e la scrittrice che ostentava il golfino pieno di pilucchi tra i gomiti e gli avambracci, il segno degli occhiali sul naso, e le scarpe austriache a punta tonda di cui Franca non voleva neanche conoscere il nome….

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