Il vantaggio della solitudine, un salvagente per affrontare il cambiamento

Artribune

Secondo la coreografa Twyla Tharp, la creatività si manifesta grazie alla capacità di tollerare la solitudine. Possiamo usare questo momento per svilupparla e riflettere sulle nostre identità in uno scenario di cambiamento. Un’opportunità da cogliere anche per le istituzioni culturali.

In questo momento di isolamento forzato in cui tutti abbiamo dovuto far fronte alla sindrome della pagina bianca, ci siamo sbizzarriti con suggerimenti per riempirla. Quella sensazione di vuoto ci ha messo di fronte al bivio tra seguire il diritto di annoiarci e tuffarci nel paramondo dei social network, per scongiurare la paura di rimanere soli e vivere un rapporto univoco con il nostro libro o con il nostro film, senza poter urlare l’ho visto o l’ho letto dai nostri avatar.
Ci siamo tutti sentiti in diritto di aiutare a riempire, supponendo che da soli siamo persi, che non riusciamo a usare il nostro senso critico per selezionare, per valutare le fonti dalle quali attingere, per assaporare il suono sospeso del silenzio.
Chi fa un lavoro intellettuale o creativo si è forse sentito più capito e, in questa Italia surreale, ha finalmente riscattato il suo vantaggio: l’abilità del saper affrontare la sfida di un bianco che deve essere dipinto con un pensiero sensato, meglio se originale, con la pazienza di abbracciare l’ozio stimolante se quella pagina non si scrive a comando.
L’abitudine creativa educa alla tolleranza e all’accettazione dell’incertezza. Lo spiega bene la coreografa Twyla Tharp nel suo libro The Creative Habit: Learn It and Use It for Life, un vademecum per i creativi in cui si somministrano preziosi consigli e una lista di esercizi da mettere in pratica per allenare questa potenzialità insita in ciascuno di noi. Non si tratta di uno di quei volumetti motivazionali da Autogrill, con tanto di podcast da sparare ad alto volume in automobile prima del meeting che ci cambierà la vita. L’autrice è una coreografa e il messaggio acquista di potenza proprio perché proveniente da un’esploratrice eccellente delle capacità del nostro corpo, componente che sta acquisendo una nuova centralità in questo momento storico. Come accade con gli strumenti di cui tutti disponiamo per natura, ci sono esploratori che si cavillano per indagarne tutte le possibilità e i meccanismi tracciando una strada, e chi si limita a perpetrare un continuo solfeggio che lascia poche tracce. La Tharp fa parte della prima categoria e appartiene a quel gruppo di personalità che hanno scritto la storia della danza post-moderna. Leggendo il suo libro capiamo subito perché: c’è un pensiero che sostiene la pratica corporea, una riflessione costante e una ferrea disciplina.

 

CREARE SPAZIO PER SEGUIRE UN OBIETTIVO

“Build your tolerance for solitude” (costruisci la tua tolleranza per la solitudine) è uno dei primi esercizi che l’autrice ci propone per costruire la nostra “abitudine creativa”, una conquista che si raggiunge solo attraverso un percorso personale.
C’è chi l’ha maturata in tenera età, resistendo a interminabili e solitarie vacanze estive dove immaginare il futuro diventava una via di fuga, chi ha usato come complice la propria passione, una compagnia garantita da coltivare nel tempo con costanza e dedizione, o chi ancora non ha avuto l’occasione di svilupparla. Che la tolleranza alla solitudine non sia iniettabile, né tramandabile, se lo dimenticano spesso proprio i “già tolleranti”, con il loro incontrollabile slancio a indirizzare quelle che la Tharp definisce “persone autofobiche”: “trova un hobby, appassionati, leggi questo libro, guarda questo film, vieni a teatro”, una stimolazione che si rivela controproducente nell’aiutarle a superare la paura di restare sole con sé stesse.
“To build your tolerance for solitude, you need a goal” (per costruire la tua tolleranza alla solitudine hai bisogno di un obiettivo), ci suggerisce infatti la Tharp. Secondo la coreografa, l’obiettivo che ciascuno di noi si prefigge può trasformare la solitudine in calma, perché quando la mente è occupata non si è mai da soli ed è abbracciando questa condizione che si crea il terreno fertile per il pensiero creativo. Così, l’isolamento forzato di oggi ci renderà più creativi domani e più selettivi nel costruire le relazioni con il prossimo, non più mossi dalla necessità di scongiurare la solitudine ma coscienti dei compagni con cui vogliamo condividere il nostro viaggio. Eccolo lì il salvagente che artisti o intellettuali possono lanciare dalla loro arca a chi non è avvezzo agli effetti collaterali del vuoto, del tempo e della libertà.
In mezzo a questa situazione che ci bombarda di lutti e storie drammatiche, l’impegno e la ricerca che serviranno a sviluppare la tolleranza a questo virus ci offrono un’occasione: la possibilità di sviluppare la nostra tolleranza alla solitudine, un’opportunità preziosa che non riguarda solo gli esseri umani.

 

AFFRONTARE IL CAMBIAMENTO RIMANENDO IN ASCOLTO

La cultura e lo spettacolo sono settori molto colpiti da questa situazione e la ricerca di soluzioni virtuali per la fruizione della loro offerta è una via intrapresa da molti per riuscire a mantenere un contatto con il proprio pubblico. Il danno economico è innegabile, ma proviamo per un attimo a guardare il bicchiere mezzo pieno: e se fosse che alcune attività culturali del nostro Paese avevano proprio bisogno di uno spazio vuoto per sviluppare tolleranza e strategia di sviluppo ma non se lo potevano permettere perché impegnate a cucire toppe su toppe?
Oggi, accettando la fragilità come condizione necessaria alla trasformazione, anche l’intero settore culturale ha l’occasione di sviluppare la propria tolleranza alla solitudine ripensando al ruolo che detiene nella società e all’identità che potrà assumere in uno scenario di cambiamento. Le riflessioni sul post COVID-19 per il settore dello spettacolo abbracciano l’esplosione tecnologica come modalità alternativa per la fruizione e ingressi contingentati, fino a che le porte dei teatri non potranno riaprire del tutto. Una transizione in cui è necessario tenere viva la fiamma dell’esperienza teatrale resa tale dalla convivenza di artisti e pubblico in uno spazio fisico condiviso, senza però temere la nascita di un genere parallelo di fruizione, un’ibridazione che può spalancare i confini dei nostri spazi teatrali e implementare le modalità di comunicazione delle nostre istituzioni.

Twyla Tharp, The Creative Habit (Simon & Schuster, 2006)

Dobbiamo convincerci a ritenere fondamentale la narrazione che accompagna l’attività svolta dai teatri e considerare la possibilità di concentrarvi più energie che in passato: la presenza sui social in questo momento di assenza può trasformarsi in una compresenza domani, un canale per raccontare le storie di chi gli spettacoli li costruisce, di come nascono, di cosa si nasconde dietro il sipario, invogliandoci a diventare parte di una comunità fisica prima (o dopo) che virtuale.
Qual è il valore della mia offerta culturale e come faccio a convincere il mio potenziale pubblico a recarsi fisicamente a teatro? È una domanda a cui questa dilatazione dell’attesa permette finalmente di rispondere da fermi, ricorrendo anche allo studio di nuovi strumenti e pratiche attive in altri settori, che la bolla della continua produttività non ci aveva dato il tempo di osservare.

 

NUOVI UTILIZZI DELL’AMBIENTE TEATRALE

Come ha ricordato il sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Carlo Fuortes nel webinar di riflessione sulla “Fase 2 della cultura” organizzato dall’Istituto Bruno Leoni, i tempi richiedono uno sforzo ancora più forte di legittimazione sociale delle istituzioni, non solo per riportare il pubblico a una frequentazione serena dei teatri ma anche per motivare e valorizzare l’intervento dei privati con i loro investimenti al settore. Lo storytelling che documenta l’attività teatrale e mostra come lo spettacolo non sia altro che l’ultimo anello di un lungo lavoro coordinato che impiega una rete di professionalità, diventa così fondamentale, anche per la concezione dello spettacolo teatrale come componente di un’offerta turistica esperienziale, come già capita in maniera strutturata in molti Paesi del mondo.
Infine, c’è il tema di un diverso utilizzo dell’ambiente teatrale. La concezione dello spazio scenico in forme alternative non è una novità, ma la natura drammaturgica di una specifica declinazione degli spazi è ben diversa dal vincolo di una spazialità regolamentata per salvaguardare noi e il prossimo.
Ecco che l’imposizione di un obbligo che disciplina la disposizione nei luoghi potrebbe agire da stimolo per una rinnovata considerazione degli spazi scenici tradizionali che offrono spettacolo dal vivo e stimolare percorsi di creazione dove è la prossemica a influenzare il processo. Un vincolo da considerare come possibilità creativa che potrebbe scrivere una nuova pagina per la ricerca artistica e l’architettura spaziale dei nostri teatri, la pagina che può essere scritta solo se riusciremo a mantenere, anche in piena attività, la posizione di ascolto che questa situazione può favorire.

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